Intervista
Antonio Scarponi • 27.06.2019

Democrazia per voi stessi

Yona Friedman è un architetto, urbanista e designer francese nato in Ungheria. È stato particolarmente influente nel secolo scorso, soprattutto per la sua teoria dell’architettura mobile. Oggi, a 96 anni, riflette sul futuro dell’abitazione, conversando con Antonio Scarponi.

Yona Friedman (Budapest, 1923), architetto, vanta una formazione costellata di partecipazioni a grandi eventi, fra cui alcune delle più importanti conferenze di Werner Heisenberg e Kàroly Kerényi. Dopo la seconda guerra mondiale, nel contesto della quale prese parte alla resistenza contro il regime nazista, si trasferì in Israele, ad Haifa, dove ha vissuto e lavorato per una decina d’anni. Dal 1957, Friedman vive a Parigi. Ha insegnato in diverse Università americane, inoltre ha collaborato con le Nazioni Unite (ONU) e l’UNESCO. La sua immensa cultura letteraria spazia dall’architettura alla fisica, passando per la sociologia e la matematica. Negli ultimi anni, Friedman è stato invitato all’undicesima edizione di Documenta, che si tiene a Kassel, e varie volte alla Biennale d’arte e architettura di Venezia. L’ultimo libro dedicato alla sua Oeuvreè “The diluition of architecture“, (ovvero la Diluizione dell’architettura, di Yona Friedman e Manuel Orazi, edito da Nader Seraj, Park Books, Zurigo, 2015).

Yona Friedman nel suo atelier, all’incirca nel 1980

AS: Il Suo lavoro viene spesso definito “utopico”, mentre Lei sostiene di essere un irriducibile ottimista. Di fatto Lei, con il Suo lavoro, realizza la prospettiva del “qui e adesso”. Che cos’è il “futuro” per Lei?

YF: Credo che il futuro sia la somma di tanti “presenti” diversi. Il modo in cui parliamo di futuro è di per sé un’illusione, ho viaggiato parecchio e posso affermarlo con una certa sicurezza! (Ride)

AS: L’anno scorso, ho avuto il privilegio di recensire uno dei Suoi ultimi lavori, ovvero il lavoro di tutta una vita per la rivista Domus: Roofs (nell’edizione italiana “Tetti”, Quodlibet, 2018). Questo lavoro mi affascina estremamente, non solo perché è il frutto di così tanti anni di ricerca, lavoro sul campo e studio, ma anche per il lirismo assoluto che lo permea. Mi piace la trasparenza della sfida: come costruire un tetto, per sé stessi e da soli (magari a mani nude) nel bel mezzo del niente. In un certo senso, ci avvicina all’essenza stessa dell’azione di costruire. Mi ricorda la famosa storia che Banham era solito raccontare sugli archetipi dell’architettura, “la capanna” e il “falò”: un gruppo di cacciatori guerrieri si attarda ed è troppo pericoloso tornare al villaggio, perciò deve decidere se utilizzare il legno a disposizione nelle vicinanze per costruire una capanna oppure per accendere un fuoco, per affrontare la notte. Secondo Banham, questo dilemma rappresenta i due archetipi dell’architettura: la capanna, ovvero la forma della costruzione, e il falò, la forma della non-costruzione. Lei pensa che “un tetto” rappresenti l’essenza dell’abitazione?

YF: L’essenza dell’abitazione è prerogativa dell’uomo nel suo complesso, come un ecosistema, e va ben oltre le quattro mura. È sempre stato così; l’idea di abitazione non è cambiata molto nella “natura animale” dell’essere umano. La tecnologia può modificare le strutture sociali o forse le infrastrutture; è parte del nostro ecosistema. Un tetto è parte integrante di un ecosistema e gli uomini costruiscono ecosistemi.
Gli ecosistemi cambiano. Per esempio, mi sembra che oggi Instagram sia più importante del MOMA, perché lì le idee circolano molto più rapidamente e raggiungono molte più persone con molta meno mediazione rispetto a un museo. Ora, è importante tenere presente che queste due realtà sono interlacciate, l’una non esclude l’altra, o per meglio dire, l’una include l’altra, in alcuni casi addirittura l’amplifica. Oggi, la conoscenza si crea e si condivide con modalità nuove. Questo fenomeno influenza anche il modo in cui possiamo imparare a costruire un tetto o ad accendere un falò; come possiamo viverci sotto o attorno e addirittura la maniera in cui lo guardiamo.

Yona Friedman, Ville Spatialle, 1959-1960

AS: Ho letto in un’intervista che, quand’era ancora un giovane architetto, Le fu “concesso” d’incontrare Le Corbusier, la prima volta nel 1949 e poi nel 1957. Nell’intervista, diceva che nel 1957 gli aveva mostrato un progetto di architettura mobile e che la sua risposta fu: “Io non lo farei, ma tu devi farlo!” Non so quanti dei maestri che ho incontrato avrebbero mai detto qualcosa del genere a un giovane architetto all’inizio della sua carriera. Quanto fu difficile per Lei seguire l’istinto e andare avanti quando tutto ebbe inizio?

YF: Sì, lui era fatto così. Non “approvava” le idee diverse dalle sue. E aveva assolutamente ragione. Ma pensava che potesse avere ragione anche chi lavorava su altre lunghezze d’onda, ecco perché mi ha incoraggiato a continuare a sviluppare quello che stavo facendo. È un po’ come dire: “Io non sono d’accordo, ma posso incoraggiarti ad andare avanti e scoprire se il tuo vecchio amico aveva ragione”. Penso che avesse ragione, ma nel senso che dovevo trovare me stesso e, naturalmente, la mia conclusione è che aveva torto! Insomma, dovevo fare ciò che dovevo fare.
Avere le proprie idee è sempre una forma di resistenza. Inizia da bambini. È importante incoraggiare la “resistenza” nelle generazioni più giovani. È questione di coraggio. Avere coraggio, essere intraprendente significa avere la consapevolezza che si può perdere ancora prima di iniziare, ma iniziare comunque e andare avanti a tutti i costi. Le Corbusier ha vinto, ma ho vinto anch’io. Abbiamo fatto ciò che dovevamo, a ogni costo. Io incoraggio i giovani talenti a fare lo stesso e a misurare il proprio coraggio contro la paura di perdere e contro il fallimento di per sé. Con questo atteggiamento, il fallimento non esiste.

Yona Friedman: Disegni della Ville Spatiale, 1958; per cortesia degli Archivi Yona Friedman, Parigi

AS: Aveva qualche conoscenza o intratteneva qualche scambio con i Situazionisti di Parigi a quei tempi, negli anni ‘50? Anche Constant, per esempio, in quegli anni lavorava a un’idea di architettura nomade (la Nuova Babilonia), che assomiglia alla Sua idea di Architettura mobile.

YF: Non avevo contatti con i Situazionisti né con Constant quando lavoravo all’Architettura mobile. Constant mi contattò dopo avere letto il mio pamphlet. Successivamente, ci siamo incontrati a Parigi, da me. Mi pare che fosse il 1961, poi è nata fra noi una certa amicizia.

Yona Friedman: Disegni della Ville Spatiale, 1958; per cortesia degli Archivi Yona Friedman, Parigi

AS: Ho l’impressione che Eduardo Paolozzi, negli anni ‘50, fosse il ponte fra gli USA, Parigi e Londra. So che era in contatto con i Situazionisti e che era naturalmente molto attivo nel Gruppo indipendente, a Londra. Fu vettore delle idee di Buckminster Fuller e della stessa cultura sub-pop americana che fecero loro inizialmente da culla. In seguito, Hamilton e Mc Hale coniarono il termine Pop-art, nel contesto del Gruppo indipendente. Era in qualche modo in contatto con Eduardo Paolozzi a quei tempi? All’epoca, Le interessavano le idee di Fuller? So che ha avuto una certa influenza su Peter Cook e sugli altri membri dell’Archigram durante i loro studi.

YF: Non ho mai conosciuto Eduardo Paolozzi. Con Bucky Fuller intrattenevo inizialmente un’amicizia per corrispondenza, poi ci incontrammo personalmente nel 1962, a Essen. Sì, ho conosciuto Peter Cook e gli altri quando erano ancora studenti, ma ho imparato la lezione di Le Corbusier: prendi la tua posizione e incoraggia gli altri a sviluppare la loro.

Yona Friedman: Disegni della Ville Spatiale, 1958; per cortesia degli Archivi Yona Friedman, Parigi

AS: Da Lei ho imparato che l’architettura è fatta più di speranza che di mattoni e cemento. Ho finito da poco di leggere un romanzo d Romain Gary, “Gli aquiloni” (Les Cerfs-volants è il titolo originale). Secondo me, questo romanzo descrive bene l’idea di “resistenza immaginativa”, che è vicina a dove colloco il Suo lavoro nella mia libreria immaginaria.  Supponiamo di progettare un aquilone da far volare in alto nel cielo azzurro, affinché possa aiutarci ad avere un’opinione o una speranza per il futuro. Vorrei chiederLe ora di scegliere cinque parole chiave sull’abitazione, che possano delineare il concetto di un “nuovo oggi”.

YF: Forse, se Le dicessi a che cosa sto lavorando al momento, potrei indirettamente riportarmi alla Sua domanda Attualmente, sto lavorando all’idea di “Global Biosphere Infrastructure” (ovvero infrastruttura della biosfera globale), si tratta di un progetto in carta e disegni che ho presentato lo scorso anno alla Fondazione Kiesler e che delinea il concetto di “Democrazia per voi stessi”:

• Progettazione per voi stessi
• Costruzione per voi stessi
• Massima autonomia
• Infrastruttura urbana e Oggetto a casa (Infrastruttura a nuvola);
• Alberi (molto importante).

Direi che questo potrebbe essere il capitolato per progettare il mio aquilone.

Yona Friedman, Cités virtuelles – It is not only the city-scape that changes, 2016, il paesaggio urbano non è l’unico a cambiare

AS: Nella Sua visione, dov’è che la “democrazia” incontra “l’autonomia”? Pensa che queste due parole siano in contrasto fra loro?

YF: Per me, la “democrazia” è un modello peculiare del nostro comportamento quotidiano, manifesto in ogni nostra azione come esseri umani. Addirittura il modo in cui stiamo parlando proprio ora è un atto di democrazia, posto che “democrazia” per me significa la possibilità di emanciparsi e prendere decisioni in prima persona. La tecnologia non è che un mezzo per raggiungere l’obiettivo. Diciamo che è la funicella dell’aquilone: lo ancora a terra ma ci consente di vederlo e di percepire il vento. Forse possiamo estendere ulteriormente questa metafora e pensare all’architettura come a un “aquilone”. L’architettura deve essere “mobile”, mentre gli alberi rappresentano l’ambiente fisso e stabile. Sono il punto di riferimento nel contesto della città nuova, una sorta di monumenti naturali che alla fine servono anche per orientarsi.

AS: Pensa che la collaborazione e la partecipazione della natura si basi sullo spazio vuoto fra la “democrazia” e “l’autonomia”? Oppure, in altre parole, qual è secondo Lei il ruolo “dell’altro”?

YF: È in pratica un elemento fondamentale del codice etico. Senza “l’altro”, un aquilone non volerebbe. “L’altro” è il vento, per volare bisogna scambiarsi le idee, anche se sappiamo bene che tutto prima o poi torna a terra.

Yona Friedman, Cités virtuelles – It is not only the city-scape that changes, 2016, il paesaggio urbano non è l’unico a cambiare

AS: Il primo dei Suoi libri che ho letto è stato Utopies réalisables (utopie realizzabili). È stato nel 2003, quando Quodlibet ne pubblicò la nuova edizione in italiano. L’ho divorato. Alla fine del Suo libro, c’è un punto che ancora mi fa sussultare.È quando Lei argomenta questa equazione: Agricoltura = sedentario; Città = nomade. Sussulto perché questo principio rovescia un immaginario collettivo in cui il nomadismo apparterrebbe a paesaggi erratici e incontaminati, introducendo una visione controintuitiva secondo cui il nomadismo è invece in realtà un evento di massa, che si verifica nel contesto di infrastrutture che chiamiamo città.
Questa prospettiva non riflette bene solo una visione della vera natura delle città, che sono infrastrutture create da e per migranti (considerando la migrazione umana in senso lato), bensì anche una crescente tendenza osservata su scala mondiale: sempre più persone vivono in città (il 32% nel 2018 rispetto al 28% nel 2016) e affermano di “sentirsi più a casa” in alcuni posti particolari della città piuttosto che nell’appartamento dove di fatto abitano. Ora, prendiamo per buono questo sondaggio. Non abbiamo gli strumenti per discutere qui in merito alla legittimità di una simile affermazione. Del resto, non sono sicuro che la vita e i sentimenti si possano ridurre a mera statistica. Tuttavia, probabilmente dimostra che l’idea emotiva di “casa” tende sempre più a “prorompere” in un contesto contingenziale più ampio, spazi pubblici, eventi, indipendentemente dal luogo in cui si conserva il guardaroba. La sensazione di essere a casa è tecnicamente, o potenzialmente, “ovunque” e oserei dire anche da nessuna parte allo stesso tempo. Penso che questo sondaggio abbia un certo impatto, ma più nell’ambito dell’immaginazione piuttosto che come “fatto” reale. Lei ha esplorato questa idea sin dai primi giorni della Sua carriera, progettando già negli anni ‘50 le possibilità consentite dalle tecnologie già disponibili a quei tempi. Pensa che le società contemporanee siano più inclini al “razzola come predichi”?

YF: Non saprei, sono un architetto, non un veggente! (Ride)
L’architettura contemporanea è oggi pura espressione del capitale economico. Anche nel passato ovviamente era così, ma il “capitale economico” rappresentava per certi versi anche un “capitale simbolico”. Un capitale spirituale, se vogliamo. In un’era in cui il capitale economico È il capitale simbolico, ovvero l’economia è più che altro fine a sé stessa, i valori simbolici sono dissociati dalle forme materiali. Mi sembra quindi di capire che siamo sempre più nomadi simbolici alla ricerca dell’autenticità di vivere e passiamo dalla qualità presunta delle cose alla qualità della vita. La città si dissolve con infrastrutture mobili, i sensori sono sempre più piccoli e noi, con questi, sintonizziamo il nostro stato d’umore come facevamo con la radio per trovare un segnale più chiaro, per individuare un posto in cui sentirci a casa, ma senza casa, lontano dalle quattro mura.
In un certo senso, le infrastrutture mobili rendono obsoleta l’architettura tradizionale. Sdoganano la scomparta dell’essenza borghese e gli spazi in cui essa si autocelebrava. Non accade solo a casa, ma anche negli ambienti lavorativi. Il risultato è che le città si stanno trasformando nell’infrastruttura di tribù nomadi, le quali seguono un flusso di dati piuttosto che le “vie dei canti”.
La casa non è più un luogo, ma piuttosto una sensazione dislocata in tanti luoghi nel tempo, qualcosa che cerchiamo continuamente, sintonizzando i nostri microdispositivi come se fossimo rabdomanti, noi stessi, per noi stessi.

Yona Friedman, Cités virtuelles – It is not only the city-scape that changes, 2016, il paesaggio urbano non è l’unico a cambiare

AS: Parlando della città come “infrastruttura” o infrastruttura urbana (magari in relazione all’idea “dell’infrastruttura a nuvola”), secondo Lei quand’è che la città “si dissolve”, scompare? Mi riferisco al Suo ultimo libro: “The Dilution of Architecture” (ovvero la Diluizione dell’architettura, scritto con Manuel Orazi, edito da Nader Seraj, Park Books 2015).

YF: Credo che possiamo considerare la città il posto in cui progettiamo i nostri sogni e i nostri desideri, condividendoli con gli altri. Credo che non sia la città a scomparire o a dissolversi, bensì una vecchia nozione di infrastruttura, perciò le reti non sono più, o meglio non sono solo, supportate da infrastrutture materiali, ma sono piuttosto sostituite da apparecchiature domestiche come i telefoni cellulari, i pannelli solari, i sistemi di recupero dell’acqua piovana, le microantenne. Improvvisamente, la città nella sua forma tradizionale, così come la conosciamo, è diventata obsoleta, teoricamente superflua. Stiamo assistendo al dissolvimento del posto di lavoro come lo conosciamo, stiamo osservando il tramonto della casa così come la conosciamo, stiamo assistendo all’estinzione delle istituzioni. Ritengo che sia possibile una nuova maturità sia per l’essere umano sia per l’architettura, in autonomia, libertà, democrazia, consapevolezza.

AS: Queste sono le premesse per un’Infrastruttura della biosfera globale?

YF: Sì. Ma dobbiamo ricordare sempre che gli alberi sono importanti.

Yona Friedman, Cités virtuelles – It is not only the city-scape that changes, 2016, il paesaggio urbano non è l’unico a cambiare

Antonio Scarponi

Antonio Scarponi nel suo studio, gennaio 2019

Antonio Scarponi è architetto e designer, fondatore dello studio Conceptual Devices a Zurigo (www.conceptualdevices.com) dove persegue una ricerca del design inteso come forma di libertà. Ha studiato architettura presso la Cooper Union di New York e presso la IUAV di Venezia. Fra i vari riconoscimenti, è stato insignito nel 2008 del premio di design Curry Stone. Ha collaborato con numerose riviste internazionali, fra cui Domus, Abitare e Wired. Ha insegnato e ha tenuto conferenze in molte Università europee e americane; oggi è Membro di Facoltà presso l’Università delle arti di Zurigo. Il suo lavoro è stato esposto in molteplici musei e gallerie di design. Nel 2016, ha partecipato alla Biennale di architettura di Venezia. È l’autore di ELIOOO, un manuale d’istruzioni su come sfruttare l’infrastruttura di distribuzione globale di IKEA e creare un sistema per coltivare cibo nel proprio appartamento.