Oliver Herwig • 18.09.2018

Manie e ordine

Il possesso ci opprime: questa la diagnosi di sociologi e psicoterapeuti. Ma allora, cosa possiamo fare se si accumulano sempre più cose? Un’incursione tra contenitori sottoletto e faldoni, scomparti, organizer e box self storage. Un viaggio alla ricerca del senso dei sistemi di organizzazione dello spazio.

In garage giacciono sci privi di attacchi e, poco più in là, una serie di vasi di vernice mezzi vuoti e pile di vecchi giornali. In cantina riposano, belli impolverati, barattoli di vetro della nonna, sacchetti per l’aspirapolvere e spazzolini elettrici in disuso. Nell’armadio fremono palline di Natale, decorazioni e fili d’argento sufficienti per addobbare cinque, o forse anche sette, sbrilluccicanti alberi di Natale. Questi non sono necessariamente sintomi di una patologia, ma dovrebbero comunque essere spunti di riflessione. Si stima che, nella sola Germania, circa 1,8 milioni di persone soffrano della sindrome di Messie, come riportato dalla rivista «Ärzteblatt» nel settembre 2002. La vita quotidiana di queste persone è dominata da una totale disorganizzazione, da un «caos interiore che si manifesta all’esterno». Sembrano cacciatori e collezionisti smarriti. La propensione ad accaparrarsi un gran numero di beni si è rivelata utile, in passato, per superare periodi bui e costruire quella che oggi chiamiamo civiltà. Oggi, le «cose della vita» sono diventate un problema. Semplicemente, ce ne sono troppe. E questo implica la necessità di tenerle in ordine. Per ogni spazzolino da denti c’è un porta spazzolino da parete, ogni chiave ha una precisa collocazione nella cassetta portautensili, la quale – a sua volta – ha un posto specifico nell’armadio degli attrezzi.

Mantenere in ordine è un lavoro. In fin dei conti, gli oggetti non sono semplicemente appoggiati o «messi lì», ma accuratamente conservati. E tutti noi combattiamo con il nostro istinto di accumulare e conservare. Dieter Rams, leggenda del design, ha già invitato i suoi adepti ad alleggerire il caos che li circondava. Perché, di fatto, accumuliamo sempre più cose, spesso del tutto inutili. Esistono appartamenti in cui gli inquilini inciampano continuamente su oggetti che, chissà, forse un giorno potrebbero tornare utili. L’accumulo riguarda tutti noi. Chi a 20 anni traslocava usando la bicicletta o una station wagon, dieci anni più tardi avrà sicuramente bisogno di un camion per il trasporto di mobili, e dieci anni dopo ancora servirà un team di professionisti che avvolgano nella carta velina fragilissimi pezzi in bone china e ad ogni gradino imprechino contro quel pianoforte che ormai, da anni, nessuno suona più.

Sembra esistere una legge fondamentale: gli oggetti attirano altri oggetti.

Una stilografica necessita delle cartucce o del calamaio, prima ancora della carta assorbente e, naturalmente, di una custodia. Ed ecco un altro esempio: il telefono cellulare ha bisogno di una cover, di una batteria esterna e degli auricolari. E se poi effettivamente qualcosa potrebbe essere eliminato, perché superato dall’innovazione tecnologica – il cavo di alimentazione, ad esempio – questi oggetti comunque ritornano in altre forme: nel nostro esempio, come stazione di ricarica senza fili.

Le cose della vita

«L’eccesso e l’abbondanza sono concetti relativi. Non esiste un confine netto tra bisogni e desideri».

L’accumulo di oggetti è un fenomeno relativamente nuovo nella storia dell’umanità. Visitando vecchie dimore contadine, nel corridoio spesso si trova soltanto una nicchia. Lì venivano riposti i beni più preziosi. Nessuno scaffale, nessun locale adibito a magazzino. La nicchia nella parete è grande abbastanza per accogliere delle chiavi e una lampada a petrolio. Per i vestiti si usavano dei ganci, i più benestanti potevano permettersi addirittura delle cassapanche. Esattamente 100 anni fa, una famiglia possedeva sì e no 200 oggetti. Oggi, ne potremmo contare 50 volte tanti… circa 10.000 oggetti! Eppure, molte cose non hanno più il valore di un tempo. Il servizio della domenica veniva esposto in bella vista nelle credenze, per ostentare la cultura ma, soprattutto, lo stato sociale del padrone di casa. Poi, è arrivata la parete attrezzata con vani e scomparti per contenere di tutto e di più. Oggi, troneggia in soggiorno uno schermo al plasma che occupa mezza parete. Il vantaggio? Si possono inscatolare anche gli ultimi libri per passare alla versione digitale. Gli oggetti sono diventati qualcosa di ovvio. Semplicemente ci sono. Magari pure quando non si vedono. Certamente possiamo condividere e ripulire, ma senza ordine non funziona. Talvolta, però, il caos visibile genera anche l’effetto contrario: spazi abitativi spartani. A tanti accumulatori e survivalisti (che stipano in bancali carne in scatola, fagioli e riso, oltre che batterie, apparecchi radio, giubbotti antiproiettili e utensili vari, in modo da essere pronti ad affrontare un’immane catastrofe), corrispondono altrettanti asceti dell’abitare organizzato e fanatici dell’ordine.

Ancora una volta ritorniamo all’abbondanza che, non ultimo, scaturisce da una società differenziata e da un’industria altamente potenziata, che per ogni disciplina sportiva sviluppa l’outfit adeguato. Abbiamo una maglia per la palestra, una per la bici, una per lo yoga e, naturalmente, un’altra per il pilates. Viviamo letteralmente sommersi da oggetti. Si nota anche nelle automobili, che diventano sempre più pesanti e imponenti. La Golf del 1974 pesava circa 750 chili, oggi siamo approssimativamente su una tonnellata e mezza. «L’impero delle cose», come lo ha battezzato Frank Trentmann, docente di storia al Birbeck College, Università di Londra. Il ricercatore in tema di quotidianità e consumo sostiene: «L’eccesso e l’abbondanza sono concetti relativi. Non esiste un confine netto tra bisogni e desideri». Prima di tutto c’è il cibo, poi la lampada Tiffany: si potrebbe riassumere così la piramide di Maslow (gerarchia dei bisogni o necessità), pubblicata dallo psicologo nel 1943. «Soddisfatto un bisogno, ne sorge un altro», scrisse Abraham Maslow. Accumuliamo dunque anche cose che dovrebbero semplificarci la vita, ma che poi finiscono per inghiottire interi appartamenti come delle sabbie mobili? Riuscire a tenere sotto controllo questo fenomeno diventa così una sfida davvero ardua.

Vivere e stoccare

Quando un appartamento straripava di oggetti, semplicemente lo chiudeva a chiave e ne acquistava uno nuovo.

Per fortuna esistono i box privati per il self storage! Di nuovo un termine che ben descrive il nostro attuale stile di vita e la nostra abitudine a conservare tutto. Con incredibile facilità imballiamo i nostri averi e affittiamo un box in periferia. Lontano dagli occhi, lontano dal cuore. L’offerta di locali di stoccaggio esterni spazia da uno a 100 metri quadrati, con un’altezza massima di 3 metri. I professionisti rispettano una regola generale: le dimensioni di un magazzino devono corrispondere al 10-15% di quelle di un appartamento. Sarebbe come far fuoriuscire tutta l’aria tra i vari oggetti e accatastare, uno sopra l’altro, delle casse sopra delle sedie su un divano, fino a toccare il soffitto. E così, 100 metri quadrati di appartamento svaniscono per finire stipati in un box di 10, o al massimo 15 metri quadrati. Ne vale davvero la pena? In campagna magari no, ma in città, dove gli appartamenti con dispensa e un’ampia cantina sono pressoché introvabili, molti ricorrono a un box esterno come «estensione del proprio soggiorno». Così l’emittente radiotelevisiva MDR cita Christian Lohmann, amministratore delegato della «Verband deutscher Self Storage Unternehmen e.V.» (VdS), Associazione delle imprese self storage tedesche. I box per il self storage si trovano sulle principali arterie stradali e sono impostati in modo tale per cui basta una telefonata, si passa di lì in auto, si firma il contratto e si inizia a stoccare il giorno stesso. I box sono aperti 24 ore su 24 ed è possibile accedervi con un codice di accesso e una smart card. Le start-up offrono anche un servizio completo e ritirano i colli direttamente a casa. Come promemoria di tutti gli oggetti che scompaiono dalla nostra vista, i fornitori offrono delle applicazioni in cui si possono caricare le foto dei propri effetti personali. Si potrebbe anche farne un bell’album fotografico… ma, in fondo, chi lo sfoglierebbe?

I critici replicheranno che la nostra propensione ad accaparrare denaro porta a un modello sociale più intelligente. Ma tutto dipende dalla prospettiva. Chiunque abbia realmente bisogno di trasferirsi, perché si rifiuta di mettere l’attrezzatura da sci nell’armadio dei vestiti, troverà nel self storage sicuramente una brillante alternativa. Chi, tuttavia, accumula sempre più cose sta semplicemente spostando il problema. No panic. Siamo in ottima compagnia. Pare che anche il grande Picasso fosse un collezionista (compulsivo). Quando un appartamento straripava di oggetti, semplicemente lo chiudeva a chiave e ne acquistava uno nuovo. Indubbiamente, una soluzione di lusso e non per tutti.

Chi, dopo diversi interventi di repulisti, si trova a possedere ancora una marea di cose, che vagano per la casa dimenticate e senza più un proprietario, dovrebbe – paradossalmente – uscire e comprare… Che cosa? Naturalmente organizer, divisori e quant’altro possa servire a tenere in ordine. Una cuccagna per gli shop online e le case d’arredamento, che non si fanno sfuggire l’occasione di offrire scatole, guardaroba, appendiabiti, cesti, scaffali, portaombrelli, portachiavi, scarpiere, cassapanche, contenitori sottoletto e portariviste. Non vi sono statistiche, purtroppo, riguardo la proporzionalità di questi piccoli «aiutanti» rispetto al numero di oggetti che dovrebbero ospitare. Si stima che questo sistema si presti a mettere in ordine più o meno una dozzina di cose. Rimane imbattuto, naturalmente, il «faldone» – con copertina e retro rivestiti in carta marmorizzata, profili inferiori, angoli e foro di presa rinforzati in lamiera d’acciaio, meccanismo a leva in metallo, con tanto di etichetta posteriore e margine rinforzato – il non plus ultra della compattezza attraverso l’ordine.

È tutto in ordine?

«il non aver bisogno di niente è cosa divina, e aver bisogno di quante meno cose si può, è cosa prossima alla divinità»

Ma, allora, tutto questo accumulare e conservare, tutti questi magazzini salvaspazio, cosa rivelano sulla nostra società? Per prima cosa, che siamo nel bel mezzo di una rivoluzione. Necessitiamo di maggiori risorse, spazi ed energie rispetto alle generazioni precedenti, e ci stiamo lentamente avvicinando ai limiti del possibile. Gli appartamenti non crescono con noi. Se diamo uno sguardo a metropoli come Tokyo, Londra, Zurigo e Monaco, è chiaro che i box non sono solo un’espressione di abbondanza, ma anche una necessità, considerando che i cittadini devono stipare i propri averi in spazi ridotti. Allo stesso tempo, anche i codici sociali sono cambiati, e quello che a noi sembra troppo, in altri ambienti culturali potrebbe essere considerato simbolo di benessere e di un certo rango sociale. In India, ad esempio, lo status sociale si esprime indossando gioielli d’oro. Noi, invece, ci distinguiamo per le foto digitali di vacanze in paradisi esotici, per l’abbigliamento tecnico e, talvolta, per l’auto che guidiamo.

Da ormai un po’ di tempo, si è formata una corrente contraria al consumismo di massa. È la cultura del «poco, e quindi più consapevole», della condivisione piuttosto che dell’acquisto. Disintossicarsi e trovare se stessi, seguire soltanto le proprie esigenze. Questi, almeno, sono alcuni dei principi. Già Socrate aveva affermato: «il non aver bisogno di niente è cosa divina, e aver bisogno di quante meno cose si può, è cosa prossima alla divinità». 2.400 anni dopo, Werner Tiki Küstenmacher e Lothar J. Seiwert scriveranno il best seller «Simplify your life – vivere in modo più semplice e felice», dando vita a un piccolo universo per la semplificazione fatto di libri, calendari e life coaching. Ma ecco il dato spiacevole: anche le cose più semplici spingono verso un determinato sviluppo e, purtroppo, bisogna ammetterlo… È tutto troppo confuso! Non è ancora chiaro dove ci porterà realmente il «potere delle cose». Chi non si china alle distopie deve necessariamente porsi dei limiti. Il mondo degli uffici fa da capofila: attraverso concetti come il «clean desk policy», esso detta le regole per un ordine quasi maniacale. Chiunque si trovi a condividere una scrivania, oppure a non disporre più di una personale, deve poter fare affidamento sul fatto che, la sera, ciascuno dei suoi colleghi riordini i blocchi, le penne e le scartoffie e che lasci la scrivania pulita e in ordine per chi viene dopo. Il concetto di «simplify your work» vale anche per la nostra vita. Non possiamo evitare di sgomberare, pulire e condividere! E se niente più funziona, ci sono altre soluzioni per smaltire la nostra sempre crescente abbondanza di oggetti: buste e sacchetti, contenitori per la raccolta del vetro e bidoni dell’immondizia.

ILLUSTRAZIONE: Josh Schaub