Andrea Wiegelmann • 21.03.2018

Il tuo nuovo
coinquilino

I robot, come anche i sistemi intelligenti di domotica, sono una componente irrinunciabile della nostra vita quotidiana. Pur utilizzandoli con tanta disinvoltura, siamo restii a formalizzare il nostro rapporto con loro. Un vuoto che andrebbe colmato, se vogliamo gestire attivamente la nostra convivenza con le macchine in futuro.

Nel film di fantascienza Blade Runner del 1982, diretto dal regista americano Ridley Scott, il robot umanoide Roy (che nel film viene definito come «replicante») salva la vita al protagonista Deckhard, interpretato da Harrison Ford, sacrificando la sua «vita», nonostante l’intenzione iniziale fosse quella di uccidere Deckhard. In Blade Runner i robot, del tutto simili alle persone, sono dotati di una memoria che consente loro di ricordare e analizzare le proprie azioni. Possiedono capacità di apprendimento e si avvicinano molto ai comportamenti umani. Nel film, i robot fanno parte dell’onnipotente Tyrell Corporation, un gruppo industriale high-tech, specializzato nella produzione e gestione dei suoi androidi.

La scena descritta verte sulla domanda centrale che accompagna la trama fin dal principio: che cosa rende gli uomini “umani” e cosa ci differenzia dai robot, proprio quando cominciano ad assomigliarci sempre di più e arriviamo addirittura ad instaurare con loro dei rapporti emozionali? Se questa domanda nel 1982 sembrava ancora utopistica, pur essendo tematizzata già allora nella letteratura e nel cinema, oggi ci confrontiamo quotidianamente con i robot umanoidi, in casa e nella vita di tutti i giorni. Il nostro rapporto con loro rimane ambiguo e spesso siamo scettici nei confronti del grande supporto che ci danno.

È interessante notare come il nostro malessere associato a una possibile vita con un robot non riguardi la sua infrastruttura tecnica, la quale potrebbe rappresentare un vero pericolo in fatto di trattamento e utilizzo dei nostri dati personali. Infatti, tramite gli smartphone, i sistemi di domotica e i softbot – che ci forniscono consigli per gli acquisti – utilizziamo già consapevolmente l’intelligenza artificiale. Grazie ad «Alexa», «Google Home» & Co., i sistemi intelligenti hanno da tempo conquistato la nostra sfera personale. Pertanto, il passo verso un robot personale non è poi così lungo.

Ciononostante, nel momento in cui un apparecchio comandato da un computer assume un aspetto che ricordi un nostro «simile», esso suscita in noi delle emozioni. Ma questo, in fondo, succede anche con il nostro laptop, quando va in tilt, oppure con lo smartphone, quando un’app non si avvia al momento del bisogno. A cosa è dovuto, dunque, questo malessere diffuso? Il futurologo e autore di cyberpunk Bruce Sterling ci spiega che la definizione di «robot» è stata coniata dall’autore ceco Karel Čapek. Nel 1920, Čapek scrisse un’opera teatrale, nella quale lavoratori simili a robot (in ceco «robota», che significa lavoratori forzati) sterminano l’umanità. La paura paranoide che le macchine possano ritorcersi contro di noi sembra essere una costante nel nostro rapporto con i robot. In Blade Runner, i «replicanti» hanno un’aspettativa di vita di quattro anni, proprio per non mettere in pericolo l’umanità. Ed è dalla dicotomia «bene e male» che nasce il nostro rapporto conflittuale con queste apparecchiature.

 

L’automa, il tuo assistente personale

Tutto diventa più chiaro nel momento in cui una macchina comincia a sostituire il contatto o le relazioni umane, come avviene ad esempio con «Alice». «Alice» ha un visino da bambola e assomiglia vagamente ad una figura femminile di Playmobil, in formato più grande. Ma il robot non è un giocattolo: esso assiste i suoi coinquilini più anziani nella vita di tutti i giorni, guarda la televisione con loro e controlla che assumano le loro medicine. La documentazione del 2015 Alice Cares (Ik ben Alice) della regista Sandra Bruger illustra come donne sole di una certe età, grazie alla presenza del robot dotato di intelligenza ed emozioni, interagiscano nella loro vita quotidiana e diventino più attive. Certo, essere assistiti da un essere umano sarebbe sicuramente meglio, ma come fare se mancano le persone?

Se nell’Europa centrale questa evoluzione è appena agli inizi, in Giappone l’impiego di robot umanoidi nella cura della casa e delle persone è già all’ordine del giorno. L’innata inclinazione dei giapponesi verso la tecnica ha sicuramente favorito tale evoluzione, ma è evidente anche che questa attitudine scaturisca da un’innegabile necessità. Nel 2030 un terzo della popolazione nipponica avrà più di 64 anni. E in Europa le stime non sono molto diverse: i 20 stati del mondo con la più alta percentuale di ultrasessantaquattrenni, oltre al Giappone, si trovano tutti nell’Unione Europea. È facile quindi prevedere che il numero di persone anziane sole e bisognose di assistenza, oppure anche malate, prossimamente supererà di gran lunga il numero dei possibili assistenti.

Oggi esistono due tipi di robot per l’assistenza: quelli che facilitano gli interventi del personale addetto alle cure, trasportano i pazienti o aiutano gli assistiti nello svolgimento delle incombenze quotidiane. Il «Care Assist Robot» è un robot di servizio di questo tipo, che ricorda gli automi dell’industria manifatturiera, come anche «Hospi». Al pari di «Alice», il design accattivante dei robot cerca di stimolare la nostra empatia. È il caso del robot «Paro», utilizzato per scopi terapeutici, le cui sembianze si ispirano ad un cucciolo di foca e tengono conto delle ottime esperienze ottenute con terapie basate su animali. L’effetto positivo di «Paro» sulla mobilità fisica e la vivacità psichica delle persone anziane è oramai dimostrato, tant’è che viene utilizzato in 30 Paesi, tra cui anche la Germania.

Esistono modelli anche per l’aiuto in case private, come ad esempio «Zenbo» o «Pepper». Quest’ultimo è programmato per parlare in 20 lingue, riconoscere le nostre emozioni in base alla nostra mimica e al tono di voce, e reagire di conseguenza. Il nostro futuro sarà quindi quello di farci coccolare e litigare con il nostro robot, pur sapendo che è una macchina?

In tutti gli esempi descritti rimane tangibile la natura artificiale di un robot, ovvero il suo essere una macchina. Questo è dovuto al fatto che percepiamo un design simile al nostro come inquietante. L’esperto giapponese di robotica Masahiro Mori descrisse questo fenomeno già nel 1970 come «Uncanny Valley». Al contempo, tuttavia, attribuiamo a robot esteticamente belli caratteristiche simili a noi umani, e in ultima analisi è questa ascrizione che conia il nostro rapporto con loro.

Fedele amico e aiutante?

A questo tema è dedicata anche la commedia Robot&Frank, realizzata nel 2012 da Jake Schreier e ambientata in un «prossimo futuro», non molto diverso dalla nostra vita attuale. Il film descrive la relazione ambigua tra l’ex ladro di gioielli Frank con un principio di demenza, e il robot che lo cura. Dopo un iniziale rifiuto da parte di Frank, il robot assume il ruolo di buon amico.

Il film dimostra ancora una volta che, nonostante tutti i nostri dubbi, alla fine accettiamo i robot. Ma significa anche che ci fidiamo di loro? Lasciamo che essi decidano per noi quello che mangiamo, che indossiamo, quali medicine assumiamo? E guardando oltre: se lasciamo che si occupino delle nostre cose, affidiamo loro potere decisionale e deleghiamo loro dei compiti, le macchine diventano responsabili anche per eventuali errori? Ma allora non dovrebbero essere programmati per continuare ad apprendere ed evolversi, come Roy in Blade Runner? E quando arriverà il momento in cui bisognerà rispettarli come «esseri viventi»?

Queste sono questioni che vanno affrontate, perché il «futuro prossimo» è alle porte e siamo noi a doverne tessere le trame. Assistenti digitali per la sfera privata e per usi commerciali, dotati di intelligenza artificiale, sono al centro dell’industria tecnologica. Un’altra tendenza riguarda le protesi e impianti intelligenti per il nostro corpo. Ciò che Ridley Scott ha illustrato in Blade Runner come distopico scenario futuro, sta diventano sempre più reale. La linea di confine tra uomo e macchina si sta facendo sempre più sottile.

Generalmente sono i grandi gruppi industriali della tecnologia a sviluppare nuove idee e nuovi prodotti. Le loro intelligenze artificiali raccolgono e acquisiscono i nostri dati, le nostre abitudini, i nostri comportamenti. Google, Amazon & Co. analizzano e utilizzano questi dati – lo fanno già oggi e lo faranno sempre di più in futuro. I limiti tra assistenza, supporto e sorveglianza sono sempre più labili. La domanda quindi non è più se abbiamo bisogno di robot – essendo loro già una parte irrinunciabile della nostra quotidianità – ma come definire il nostro rapporto con loro e con le organizzazioni e infrastrutture che li supportano.

Illustrazioni: Josh Schaub